Interessante e destinata ad avere un seguito la
sentenza del Giudice Gattari della I Sezione Civile del Tribunale di Milano che
qualifica la responsabilità del medico come extracontrattuale ex art. 2043
codice civile secondo una più corretta interpretazione della cd legge Balduzzi
(L. 189/2012), che è stata oggetto di diverse opzioni interpretative e applicazioni giurisprudenziali. Fino ad ora invece, l’orientamento giurisprudenziale riteneva che, tanto la responsabilità della
struttura sanitaria come pure quella del medico dovessero essere inquadrate
nell’inadempimento contrattuale ex art. 1218 codice civile.
La
differenza interpretativa non è di poco conto. Il termine di prescrizione del
diritto al risarcimento da fatto illecito, ex art 2043 c.c. è di cinque anni
contro i dieci della responsabilità contrattuale ex art. 1218. In più nel primo
caso spetta al danneggiato l’onere della prova della responsabilità da
malpractice medica.
Secondo l’insegnamento
consolidato della giurisprudenza, avallato dalle Sezioni Unite della Cassazione
(sent. 1/7/2002 n. 9556 e sent. 11/1/2008 n. 577), il rapporto che lega la
struttura sanitaria (pubblica o privata) al paziente ha fonte in un contratto
obbligatorio atipico (cd contratto di “spedalità” o di “assistenza sanitaria”)
che si perfeziona anche sulla base di fatti concludenti – con la sola
accettazione del malato presso la struttura (Cass. 13/4/2007 n. 8826) - e che
ha ad oggetto l’obbligo della struttura di adempiere sia prestazioni principali
di carattere strettamente sanitario sia prestazioni secondarie ed accessorie
(fra cui prestare assistenza al malato, fornire vitto e alloggio in caso di
ricovero ecc.).
Ne deriva che la
responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria, per l’inadempimento e/o
per l’inesatto adempimento delle prestazioni dovute in base al contratto di
spedalità, va inquadrata nella responsabilità da inadempimento ex art. 1218
c.c. e nessun rilievo a tal fine assume il fatto che la struttura (sia essa un
ente pubblico o un soggetto di diritto privato) per adempiere le sue
prestazioni si avvalga dell’opera di suoi dipendenti o di suoi collaboratori
esterni – esercenti professioni sanitarie e personale ausiliario – e che la
condotta dannosa sia materialmente tenuta da uno di questi soggetti. Infatti, a
norma dell’art. 1228 c.c., il debitore che per adempiere si avvale dell’opera
di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro.
Il giudice meneghino pone l’accento proprio sull’art. 3 della legge (“Responsabilità professionale dell’esercente le
professioni sanitarie”) che prevede al comma 1 “l’esercente la
professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a
linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non
risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui
all’articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione
del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al
primo periodo”.
E da qui
muove la sua innovazione interpretativa asserendo che solo così è possibile
perseguire l’obiettivo precipuo del legislatore che aveva espressamente inteso
contenere la spesa pubblica e arginare il fenomeno della “medicina difensiva”,
sia attraverso una restrizione delle ipotesi di responsabilità medica (spesso
alla base delle scelte diagnostiche e terapeutiche “difensive” che hanno
un’evidente ricaduta negativa sulle finanze pubbliche) sia attraverso una
limitazione dell’entità del danno biologico risarcibile al danneggiato in caso
di responsabilità dell’esercente una professione sanitaria.
Di
seguito il testo integrale della sentenza
Tribunale di Milano
Sezione I Civile
Sentenza 17 luglio
2014
(Est. Patrizio
Gattari)
OMISSIS
RAGIONI DELLA
DECISIONE
1. Le domande oggetto di causa.
V ha convenuto in giudizio Policlinico di … s.p.a. e
il dott. X esponendo: che nell’ottobre del 2008 era stato sottoposto ad
intervento di tiroidectomia totale presso la struttura sanitaria convenuta; che
l’intervento chirurgico era stato eseguito dal convenuto dott. ; che
nell’immediato post-operatorio una grave dispnea da paralisi bilaterale delle
corde vocali aveva reso necessario il ricovero in terapia intensiva; che era
stato dimesso il 29/10/2008; che nei giorni immediatamente successivi, per il
perdurare dei problemi respiratori, era stato ricoverato presso un altro
nosocomio dove l’8/11/2008 i sanitari avevano praticato una tracheotomia che
aveva tuttavia solo in parte risolto i danni alla salute subiti in occasione
del primo intervento presso la struttura sanitaria convenuta; che infatti i
successivi controlli specialistici effettuati e i pareri medico-legali
acquisiti avevano confermato che la corda vocale destra era paralizzata e non
più recuperabile, mentre la sinistra poteva avere un leggero margine di
miglioramento col tempo; che la paralisi bilaterale delle corde vocali era in
diretta correlazione con l’errato intervento eseguito dal convenuto dott. X
presso il Policlinico di ..; che i convenuti erano responsabili del danno alla
salute e del danno morale subiti dall’attore.
Su tali premesse, l’attore chiedeva la condanna
solidale dei convenuti al risarcimento dei danni derivati dall’illecito
descritto e che indicava in complessivi euro 60.513,69 oltre rivalutazione
monetaria e interessi dalla data dell’illecito.
Si è costituita ritualmente la società Policlinico di
.. s.p.a. esponendo: che in occasione dell’intervento di tiroidectomia totale
eseguito il 20/10/2008 erano sorte difficoltà a causa di un grosso nodulo nella
parte destra, sede di pregressi fatti flogistici, e degli esisti nella parte
sinistra di un precedente intervento di ernia cervicale; che gli operatori non
erano riusciti a isolare la corda vocale di destra, mentre quella sinistra era
stata visualizzata e conservata; che dopo la fine dell’intervento era insorta
una crisi dispnoica che aveva reso necessaria l’intubazione del paziente e il
suo trasferimento in terapia intensiva, dove era rimasto fino al giorno
successivo; che il paziente era stato dimesso il 29/10/2008 e dopo due giorni i
chirurghi e gli specialisti avevano consigliato il ricovero presso altro
nosocomio specializzato, dove era stato sottoposto a tracheotomia temporanea;
che l’intervento eseguito presso la struttura convenuta dal dott. X non era di
routine e che le lesioni lamentate dal paziente costituivano complicanze
prevedibili di tale tipo di intervento e si erano verificate nonostante i
sanitari avessero fatto quanto era loro esigibile per prevenirle; che
trattandosi di una complicanza prevedibile indicata nel modulo di consenso
sottoscritto dal paziente e non evitabile nel caso concreto dai sanitari, non
poteva essere ravvisata una responsabilità risarcitoria; che in ogni caso la
complessità e la difficoltà dell’intervento avrebbero giustificato la
limitazione della responsabilità ex art. 2236 c.c.; che le conseguenze dannose
subite dall’attore non potevano essere costituite da quelle dedotte e che
l’entità del risarcimento preteso era ingiustificata; che in ogni caso qualora
fosse stata accertata una responsabilità solidale della struttura sanitaria
convenuta, essa aveva diritto ad essere manlevata dal medico convenuto, unico
eventuale responsabile del danno de quo; che infatti nel contratto di
collaborazione stipulato con il Policlinico di . s.p.a. il medico si era espressamente
obbligato a tenere indenne la struttura sanitaria per i danni conseguenti alla
attività medico-chirurgica svolta presso di essa. Pertanto il convenuto
Policlinico di … s.p.a. chiedeva il rigetto delle domande dell’attore e, in
subordine, qualora esse fossero risultate in tutto o in parte fondate chiedeva
la condanna dell’altro convenuto X a manlevare e tenere indenne la struttura
sanitaria.
Si è altresì costituito ritualmente l’altro convenuto
X il quale, in via preliminare, eccepiva l’improcedibilità dell’azione promossa
nei suoi confronti per mancata indicazione dei codici fiscali dei convenuti, la
nullità della procura alle liti rilasciata dall’attore senza indicazione del
consenso alla mediazione e dichiarava l’intenzione di chiamare in causa il
proprio assicuratore (senza tuttavia chiedere il differimento dell’udienza ex
artt. 167 e 269 c.p.c.); nel merito il professionista convenuto chiedeva il
rigetto delle domande avanzate nei suoi confronti e, in subordine, la condanna
del proprio assicuratore a tenerlo indenne dalla soccombenza. Nella comparsa
costitutiva il medico allegava in particolare che l’intervento chirurgico
eseguito era stato di particolare complessità, anche per le condizioni
soggettive del paziente già evidenziate nella difesa della struttura sanitaria,
e che non vi erano elementi per poter ravvisare una sua responsabilità per i
danni dedotti genericamente dall’attore.
L’irrituale istanza di chiamata del terzo avanzata dal
medico veniva respinta e tale parte provvedeva autonomamente a citare in
giudizio davanti al medesimo tribunale il proprio assicuratore, al quale
chiedeva di tenerlo indenne in caso di soccombenza nei confronti delle domande
avanzate nei suoi confronti da V. Si è costituita in quel giudizio la convenuta
.. Assicurazioni s.p.a. senza sollevare eccezioni alla validità e
all’operatività della polizza di responsabilità professionale stipulata con il
dott. X e dicendosi pronta a tenere indenne il proprio assicurato in caso di
soccombenza nella causa introdotta da V.
Con ordinanza del 14/12/2011 le due cause pendenti
davanti al sottoscritto giudice istruttore e chiamate alla stessa udienza sono
state riunite ex art. 274 c.p.c.
La domanda riconvenzionale di manleva avanzata dalla
convenuta struttura sanitaria nei confronti dell’altro convenuto è contenuta
nella comparsa costitutiva tempestivamente depositata. L’irrituale istanza ex
art. 269 c.p.c. di autorizzazione alla chiamata in causa e di differimento
dell’udienza contenuta nella comparsa di risposta della struttura sanitaria è
stata respinta, poiché la domanda di manleva non era rivolta nei confronti di
un terzo bensì di un soggetto già parte (convenuto) del processo. Con la
costituzione in giudizio del convenuto X si è pienamente instaurato il
contraddittorio fra le parti anche in merito alla domanda di manleva, senza
bisogno di dover disporre la notifica della comparsa (necessaria ex art. 292
c.p.c. solo qualora il destinatario della domanda resti contumace).
L’istruttoria delle due cause riunite si è articolata
nell’acquisizione dei documenti prodotti dalle parti e nell’espletamento di
CTU, all’esito della quale il dott. .. (specialista in medicina legale,
otorinolaringoiatria, audiologia e foniatria) ha depositato il 28/12/2012 una
relazione scritta, con allegate le osservazioni critiche delle parti. L’istanza
di prova orale avanzata dal convenuto X è stata respinta per le ragioni
esplicitate nell’ordinanza del 22/5/2013 alla quale si rinvia.
All’udienza del 29/1/2014 le parti hanno precisato le
conclusioni sopra richiamate e, scaduti i termini ordinari concessi per il
deposito degli scritti conclusivi, la causa è entrata in decisione.
1.1 Le eccezioni processuali del convenuto X
Sia l’eccezione di “improcedibilità dell’atto di
citazione” sia quella di “nullità della procura” alle liti sollevate dal
convenuto X nella comparsa di costituzione e risposta (e reiterate in sede di
precisazione delle conclusioni) sono infondate.
Per quanto attiene all’eccezione di improcedibilità
per la mancata indicazione in citazione dei codici fiscali dei convenuti –
richiesta dall’art. 163 n. 2 c.p.c. (come modificato dal D.L. n. 193 del 2009
convertito con modificazioni nella L. n. 24 del 2010) - tale lacuna dell’atto
introduttivo non incide affatto sulla procedibilità dell’azione. La mancata
indicazione dei codici fiscali avrebbe semmai potuto astrattamente comportare
la nullità della citazione ex art. 164 co.1 c.p.c. (sanabile mediante la
rinnovazione dell’atto), che tuttavia risulta sanata nel caso concreto con la
costituzione di entrambi i convenuti (art. 164 co. 2 c.p.c.) i quali, nelle
rispettive comparse di risposta, hanno indicato i propri codici fiscali (come
previsto dall’art. 167 co. 1 c.p.c. novellato dalla stessa L.24/2010 citata).
Per quanto riguarda l’eccezione di nullità della
procura alle liti per l’asserita mancata indicazione del consenso informato
alla mediazione, contrariamente a quanto sembra ritenere la difesa convenuta
l’assenza dell’informativa al cliente prevista dal D.L.vo n.28 del 2010 non
comporta nullità della procura rilasciata al difensore, bensì eventualmente –
ove l’informativa non sia stata fornita al cliente – l’annullabilità del cd
contratto di patrocinio concluso tra il difensore e il cliente e che solo
quest’ultimo può far valere (art. 1441 c.c.); ne deriva che la violazione degli
obblighi informativi previsti dal citato D.Lvo non può essere utilmente
invocata dalla controparte processuale.
2. L’articolato sistema della responsabilità
civile in ambito sanitario.
Prima di esaminare il merito delle domande, è
opportuno reinquadrare e rimettere a fuoco il sistema della responsabilità
civile da “malpractice medica” a seguito della cd legge Balduzzi (L. 189/2012),
che è stata oggetto di diverse opzioni interpretative e di applicazioni
giurisprudenziali non sempre convincenti.
All’esito di una non breve riflessione favorita dai
vari contributi anche giurisprudenziali noti, ritiene il Tribunale adito che la
citata legge del 2012 induca a rivedere il “diritto vivente” secondo cui sia la
responsabilità civile della struttura sanitaria sia quella medico andrebbero in
ogni caso ricondotte nell’alveo della responsabilità da inadempimento ex art.
1218 c.c.
2.1 La responsabilità della struttura
sanitaria.
Secondo l’insegnamento consolidato della
giurisprudenza, avallato dalle Sezioni Unite della Cassazione (sent. 1/7/2002
n. 9556 e sent. 11/1/2008 n. 577), il rapporto che lega la struttura sanitaria
(pubblica o privata) al paziente ha fonte in un contratto obbligatorio atipico
(cd contratto di “spedalità” o di “assistenza sanitaria”) che si perfeziona
anche sulla base di fatti concludenti – con la sola accettazione del malato
presso la struttura (Cass. 13/4/2007 n. 8826) - e che ha ad oggetto l’obbligo
della struttura di adempiere sia prestazioni principali di carattere
strettamente sanitario sia prestazioni secondarie ed accessorie (fra cui
prestare assistenza al malato, fornire vitto e alloggio in caso di ricovero
ecc.).
Ne deriva che la responsabilità risarcitoria della
struttura sanitaria, per l’inadempimento e/o per l’inesatto adempimento delle
prestazioni dovute in base al contratto di spedalità, va inquadrata nella
responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. e nessun rilievo a tal fine
assume il fatto che la struttura (sia essa un ente pubblico o un soggetto di
diritto privato) per adempiere le sue prestazioni si avvalga dell’opera di suoi
dipendenti o di suoi collaboratori esterni – esercenti professioni sanitarie e
personale ausiliario – e che la condotta dannosa sia materialmente tenuta da
uno di questi soggetti. Infatti, a norma dell’art. 1228 c.c., il debitore che
per adempiere si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o
colposi di costoro.
Inoltre, a fronte dell’inadempimento dedotto
dall’attore - come causa del danno di cui chiede il risarcimento – è onere del
debitore convenuto (struttura sanitaria) provare di aver esattamente adempiuto
le sue prestazioni e che il danno lamentato da controparte non gli è
imputabile. Al riguardo la Suprema Corte ha precisato che “in tema di responsabilità
contrattuale della struttura sanitaria (…), ai fini del riparto dell'onere
probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza
del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della
patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a
provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che
tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato
eziologicamente rilevante” (Cass. Sez. Un. 11/1/2008 n. 577).
La responsabilità risarcitoria della struttura
sanitaria come responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. non muterebbe
natura qualora si volesse invece ritenere che per le strutture (pubbliche o
private convenzionate) inserite nel S.S.N. l’obbligo di adempiere le
prestazioni di cura e di assistenza derivi direttamente dalla legge istitutiva
del Servizio Sanitario (L. n. 833 del 1978), come pure da taluni sostenuto.
Anche secondo tale impostazione, infatti, la responsabilità andrebbe comunque
ricondotta alla disciplina dell’art. 1218 c.c., al pari di ogni responsabilità
che scaturisce dall’inadempimento di obbligazioni derivanti da “altro atto o
fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento” (art. 1173 c.c.).
In ogni caso, la struttura sanitaria convenuta dal
danneggiato è dunque responsabile ai sensi dell’art. 1218 c.c. per il
risarcimento dei danni derivati dall’inadempimento (o dall’inesatto
adempimento) di una delle prestazioni a cui è direttamente obbligata.
2.2 La responsabilità del medico.
In merito alla responsabilità del medico dipendente
e/o collaboratore della struttura sanitaria - autore della condotta attiva o
omissiva produttiva del danno subito dal paziente col quale tuttavia non ha
concluso un contratto diverso ed ulteriore rispetto a quello che obbliga la
struttura nella quale il sanitario opera - a partire dal 1999 la giurisprudenza
pressoché unanime ha ritenuto che anch’essa andasse inquadrata nella
responsabilità ex art. 1218 c.c. in base alla nota teoria del “contatto
sociale” (Cass. 22/1/1999 n. 589). In particolare, secondo tale consolidato
indirizzo giurisprudenziale – ribadito anche nel 2008 dalle Sezioni Unite della
Cassazione (sent. 577/2008) - “in tema di responsabilità civile nell'attività
medico-chirurgica, l'ente ospedaliero risponde a titolo contrattuale per i
danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della
prestazione medica da parte di un medico proprio dipendente ed anche
l'obbligazione di quest'ultimo nei confronti del paziente, ancorché non fondata
sul contratto, ma sul "contatto sociale", ha natura contrattuale,
atteso che ad esso si ricollegano obblighi di comportamento di varia natura,
diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono
esposti a pericolo in occasione del contatto stesso (…)” (in tal senso, fra le
altre, Cass. 19/04/2006 n. 9085).
La ricostruzione della responsabilità del medico in
termini di responsabilità “contrattuale” ex art. 1218 c.c. anche in assenza di
un contratto concluso dal professionista con il paziente implica, come logico
corollario, l’applicazione della relativa disciplina in tema di riparto
dell’onere della prova fra le parti, di termine di prescrizione decennale ecc.
Tale inquadramento della responsabilità medica e il
conseguente regime applicabile, unito all’evoluzione che nel corso degli anni
si è avuta in tema di danni non patrimoniali risarcibili e all’accresciuta
entità dei risarcimenti liquidati - in base alle tabelle di liquidazione
equitativa del danno alla persona elaborate dalla giurisprudenza di merito, in
particolare a quelle del Tribunale di Milano ritenute applicabili dalla
Cassazione a tutto il territorio nazionale in mancanza di un criterio di
liquidazione previsto dalla legge - ha indubitabilmente comportato un aumento
dei casi in cui è stato possibile ravvisare una responsabilità civile del
medico ospedaliero (chiamato direttamente a risarcire il danno sulla base del
solo “contatto” con il paziente se non riesce a provare di essere esente da
responsabilità ex art. 1218 c.c.), una maggiore esposizione di tale categoria
professionale al rischio di dover risarcire danni anche ingenti (con
proporzionale aumento dei premi assicurativi) ed ha involontariamente finito
per contribuire all’esplosione del fenomeno della cd “medicina difensiva” come
reazione al proliferare delle azioni di responsabilità promosse contro i
medici.
2.3 L’impatto della legge n. 189 del 2012 (cd
“legge Balduzzi”) sul sistema della responsabilità civile in ambito sanitario.
Su tale contesto normativo e giurisprudenziale è
intervenuta alla fine del 2012 la “legge Balduzzi” - L. 8 novembre 2012 n. 189
che ha convertito con modificazioni il D.L. 13 settembre 2012 n. 158 – la quale
ha espressamente inteso contenere la spesa pubblica e arginare il fenomeno
della “medicina difensiva”, sia attraverso una restrizione delle ipotesi di
responsabilità medica (spesso alla base delle scelte diagnostiche e
terapeutiche “difensive” che hanno un’evidente ricaduta negativa sulle finanze
pubbliche) sia attraverso una limitazione dell’entità del danno biologico
risarcibile al danneggiato in caso di responsabilità dell’esercente una
professione sanitaria.
L’art. 3 della legge (“Responsabilità professionale
dell’esercente le professioni sanitarie”) prevede al comma 1 che “l’esercente
la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si
attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica
non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta
comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 del codice civile. Il
giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene
debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”.
Occorre dunque valutare l’impatto dell’art. 3 della L.
n. 189 del 2012 (“legge Balduzzi”) sul delineato sistema della responsabilità
in ambito sanitario e sulla responsabilità del medico in particolare.
Il dibattito che si è sviluppato in dottrina dopo
l’entrata in vigore della legge si è incentrato principalmente sul secondo
inciso della norma (“In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui
all’articolo 2043 del codice civile”) ed è caratterizzato da opinioni
contrapposte, rispecchiate nelle pronunce giurisprudenziali di merito note.
Il richiamo esplicito alla disciplina della
responsabilità risarcitoria da fatto illecito (art. 2043) è stato visto da
alcuni come una sorta di “atecnico” rinvio alla responsabilità risarcitoria
dell’esercente la professione sanitaria (in tal senso, fra gli altri, Tribunale
di Arezzo 14/2/2013 e Tribunale di Cremona 19/9/2013), mentre altri (Tribunale
di Varese 29/12/2012) hanno inteso da subito vedere nella previsione in esame
una indicazione legislativa (di portata indirettamente/implicitamente
interpretativa) volta a chiarire che, in assenza di un contratto concluso con
il paziente, la responsabilità del medico non andrebbe ricondotta nell’alveo
della responsabilità da inadempimento/inesatto adempimento (comunemente detta
«contrattuale») bensì in quello della responsabilità da fatto illecito
(comunemente detta «extracontrattuale»).
Gli estremi delle contrapposte opinioni emerse nella
giurisprudenza di merito paiono ben rappresentati da una pronuncia del
Tribunale di Torino del 26/2/2013 e da quella del Tribunale di Rovereto del
29/12/2013.
Secondo il giudice piemontese il legislatore del 2012
avrebbe dettato una norma che smentisce l’intera elaborazione giurisprudenziale
precedente e l’art. 2043 sarebbe ora la norma a cui ricondurre sia la
responsabilità del medico pubblico dipendente sia quella della struttura
pubblica nella quale opera (non essendo ipotizzabile secondo quel giudice un
diverso regime di responsabilità del medico e della struttura), per cui l’art.
3 della legge Balduzzi cambierebbe il “diritto vivente” operando una scelta di campo
del tutto chiara e congruente con la finalità di contenimento degli oneri
risarcitori della sanità pubblica e “getta alle ortiche” la utilizzabilità in
concreto della teorica del contatto sociale.
Il giudice trentino ha ritenuto invece che nessuna
portata innovatrice deriverebbe dalla legge Balduzzi in merito alla
responsabilità civile del medico in quanto il richiamo all’art. 2043 c.c.
contenuto nell’art. 3 andrebbe riferito solo al giudice penale per il caso di
esercizio dell’azione civile in sede penale, mentre la responsabilità civile
del medico andrebbe comunque ricondotta al disposto dell’art. 1218 c.c. in caso
di inadempimento e/o inesatto adempimento dell’obbligazione “legale” gravante
anche sul singolo operatore sanitario e che troverebbe fonte nella legge
istitutiva del S.S.N. (L. n. 833 del 1978).
Anche la Suprema Corte si è pronunciata sulla
possibile portata innovatrice della legge Balduzzi nel regime della
responsabilità civile medica, sinora escludendola.
In una prima decisione del febbraio 2013 la Cassazione
(in un “obiter”) ha affermato che “(…) la materia della responsabilità civile
segue le sue regole consolidate (…) anche per la c.d. responsabilità
contrattuale del medico e della struttura sanitaria, da contatto sociale”,
richiamando quale “punto fermo, ai fini della nomofilachia, gli arresti delle
sentenze delle Sezioni Unite nel novembre 2008 (…)” (Cass. 19/2/2013 n. 4030).
In tale sentenza non sono fornite indicazioni interpretative del secondo inciso
dell’art. 3 comma 1 L.189/2012, che invece si rinvengono nella successiva
pronuncia della Cassazione del 17/4/2014 n. 8940 così massimata: “l'art. 3,
comma 1, del d.l. 13 settembre 2012, n. 158, come modificato dalla legge di
conversione 8 novembre 2012, n. 189, nel prevedere che "l'esercente la
professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a
linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non
risponde penalmente per colpa lieve", fermo restando, in tali casi,
"l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile", non esprime
alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della
responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente
extracontrattuale, ma intende solo escludere, in tale ambito, l'irrilevanza della
colpa lieve”.
Non sono condivisibili le concrete applicazioni
dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi fatte in alcune delle pronunce di
merito sopra richiamate, mentre l’interpretazione della norma operata dalla
Cassazione nell’ordinanza n. 8940 del 2014 risulta solo in parte convincente.
Come si è già avuto modo di argomentare più
diffusamente, il tenore letterale del comma 1 dell'art. 3 L.189/2012 e le
esplicite finalità perseguite dal legislatore del 2012 - di contenimento della
spesa pubblica e di porre rimedio al cd fenomeno della medicina difensiva anche
attraverso una limitazione della responsabilità dei medici - non sembrano
legittimare semplicisticamente un'interpretazione della norma nel senso che il
richiamo all'art. 2043 c.c. sia atecnico o frutto di una svista.
Prima di prendere posizione sulle possibili ricadute
che la legge del 2012 pare avere sulla responsabilità del medico, è tuttavia
opportuno far chiarezza sul suo ambito applicativo e sgombrare il campo da
alcune riferite letture della nuova previsione normativa che non convincono
affatto.
Innanzitutto, nessuna portata innovativa può avere
l’art. 3 della legge 189/2012 - che si riferisce espressamente alla
responsabilità dell’esercente una professione sanitaria autore della condotta illecita
- sulla natura “contrattuale” della responsabilità civile (ex artt. 1218 e 1228
c.c.) della struttura sanitaria (pubblica o privata) nella controversia
risarcitoria promossa nei suoi confronti dal danneggiato.
Sia che si ritenga ravvisabile un contratto atipico
fra la struttura sanitaria ed il paziente, sia che si preferisca individuare
nella legge la fonte dell’obbligo per la struttura (pubblica o convenzionata)
inserita nel S.S.N. di erogare determinate prestazioni in favore del paziente,
in ogni caso come detto la struttura sanitaria convenuta dal danneggiato è
responsabile ai sensi dell’art. 1218 c.c. per il risarcimento dei danni
derivati dall’inadempimento (o dall’inesatto adempimento) di una delle
prestazioni a cui è direttamente obbligata.
In secondo luogo, non può essere condivisa l’opinione
– fatta propria da una minoritaria giurisprudenza di merito - che in sostanza
finisce per ritenere l’intero articolo 3 comma 1 una legge penale o comunque
una legge che fa eccezione a regole generali e ne fa discendere che, ai sensi
dell’art. 14 delle preleggi, troverebbe applicazione nei soli casi ivi
previsti.
L’art. 3 della legge Balduzzi oltre ad introdurre
indubbie restrizioni alla responsabilità penale - prevedendo una parziale abolitio
criminis degli artt. 589 e 590 (Cass. pen. 29/1/2013 n. 16237) -
disciplina infatti vari aspetti della “responsabilità
professionale dell’esercente le professioni sanitarie” compresa la responsabilità
risarcitoria, di cui si occupa espressamente non solo nel comma 1, con il
richiamo all’obbligo di cui all’art. 2043 e con la previsione di tener conto
nella determinazione del risarcimento del danno del fatto che il responsabile
si è attenuto alle linee guida, ma anche nel comma 3, che introduce un criterio
legale di liquidazione del danno biologico mediante il rinvio alle tabelle
previste negli artt. 138 e 139 del D.Lvo n. 209/2005 (cod. ass.), e, in qualche
modo, nel comma 5, ove è previsto l’aggiornamento periodico e l’inserimento di
specialisti nell’albo dei CTU. Peraltro, oltre che non rispondente ai comuni
criteri ermeneutici, l’interpretazione secondo cui l’art. 3 comma 1 sarebbe
“legge penale” o “eccezionale” destinata in quanto tale a disciplinare ex art.
14 delle preleggi solo i casi dalla stessa espressamente previsti – esonero
dalla responsabilità penale del medico in colpa lieve che si è attenuto alle
linee guida e responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c.
dello stesso professionista solo in caso di proscioglimento/assoluzione in sede
penale – porrebbe forti dubbi di legittimità costituzionale, per
l’ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento e diversità di
disciplina che verrebbero a crearsi a seconda che una determinata condotta
illecita del medico (causativa di danni risarcibili) venga preventivamente
vagliata dal giudice penale oppure no.
Né può condividersi l’affermazione secondo cui
l’obbligazione del medico avrebbe fonte “legale”, in quanto scaturirebbe
direttamente dalla legge istitutiva del S.S.N. (l. 833/1978), con conseguente
applicabilità del regime giuridico della responsabilità ex art. 1218 c.c. per
il risarcimento dei danni derivanti da inadempimento.
L’opinione largamente maggioritaria individua, come
detto, nel contratto di “spedalità” o di “assistenza sanitaria” (non nella legge)
la fonte del rapporto obbligatorio fra la struttura sanitaria e il paziente e,
ove pure non si ritenga di aderire a tale conclusione, al più nella legge
istitutiva del S.S.N. potrebbe eventualmente individuarsi la fonte delle
obbligazioni gravanti sulle strutture (pubbliche e private) inserite nel
variegato servizio sanitario ma non certo di obbligazioni verso il paziente
direttamente gravanti sul singolo medico, inserito a vario titolo (come
dipendente o collaboratore esterno) in complesse strutture – che autonomamente
organizzano le risorse ed i mezzi di cui dispongono – presso le quali viene di
solito in contatto con gli utenti solo perché ciò è insito nell’espletamento
delle sue mansioni lavorative (al pari di quanto avviene ad altri dipendenti o
collaboratori di pubbliche amministrazioni o di soggetti privati che erogano
servizi pubblici). Tant’è che per circa vent’anni dopo l’istituzione del S.S.N.
la giurisprudenza (sino alla sentenza della Cassazione n. 589 del 1999) ha
continuato a qualificare extracontrattuale la responsabilità del medico
ospedaliero per i danni arrecati ai pazienti (vd Cass.13/3/1998 n. 2750 e Cass.
24/3/1979 n. 1716), senza mai ravvisare nella legge 833/1978 la fonte di
un’obbligazione “legale” ex art. 1173 c.c. in capo al singolo medico che ha
eseguito la sua prestazione in virtù del rapporto organico con la struttura
sanitaria.
Come pure va sgombrato il campo dall’equivoco che
l’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi possa disciplinare ogni ipotesi di
responsabilità del medico (e di ogni altro esercente la professione sanitaria),
come sembra affermare il Tribunale di Torino nella sentenza sopra richiamata.
Ferma la responsabilità (distinta ed autonoma) ex art.
1218 c.c. della struttura sanitaria, qualora il danneggiato intenda agire in
giudizio (anche o soltanto) contro il medico, occorre infatti necessariamente
distinguere l’ipotesi in cui il paziente ha concluso un contratto con il
professionista da quella in cui tali parti non hanno concluso nessun contratto.
Non pare dubitabile che il danneggiato può utilmente continuare ad invocare la
responsabilità da inadempimento ex art. 1218 c.c. del medico
qualora provi che le parti hanno concluso un contratto d’opera professionale,
senza che assuma alcun rilievo il fatto che la prestazione medico-chirurgica
sia stata eventualmente resa (in regime ambulatoriale o di ricovero) presso una
struttura sanitaria (pubblica o privata). In tal caso il medico è legato al
paziente da un rapporto contrattuale (diverso sia dal rapporto che lega il sanitario
alla struttura nella quale opera, sia dal rapporto che intercorre fra il
paziente e la struttura) e pertanto la sua responsabilità risarcitoria ben può
(e deve) essere ricondotta alla responsabilità da inadempimento ex art.
1218 c.c.
In presenza di un contratto fra paziente e
professionista, nessun riflesso quindi può avere sulla qualificazione della
responsabilità risarcitoria del medico la previsione contenuta nel comma 1
dell’art. 3 della legge Balduzzi, in particolare il richiamo all’art. 2043 c.c.
Va in tal senso pienamente condivisa l’affermazione della Cassazione secondo
cui è escluso che la legge 189/2012 abbia inteso esprimere un’opzione a favore
della qualificazione della responsabilità medica “necessariamente” come
responsabilità extracontrattuale (Cass. n. 8940 del 2014).
Non può invece essere condivisa l’interpretazione
complessiva del secondo inciso dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi che
emerge dalla motivazione (non anche dalla massima sopra richiamata)
dell’ordinanza della Cassazione n.8940 del 2014 - laddove la Corte conclude che
a tale norma non andrebbe attribuito alcun rilievo che possa indurre a superare
l’orientamento giurisprudenziale “tradizionale” in tema di responsabilità
medica – la quale pare inserirsi nel solco delle letture che sostanzialmente
tendono a vanificare la portata della norma.
Nel motivare la sua decisione la Cassazione afferma
che l’art. 3 comma 1 L.189/2012 “(…) poiché omette di precisare in che termini
si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo
inciso solo la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso
successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043
c.c., dev’essere interpretata, conforme al principio per cui in lege aquilia et
levissima culpa venit, nel senso che il legislatore si è soltanto preoccupato
di escludere l’irrilevanza della colpa lieve anche in ambito di responsabilità
extracontrattuale civilistica”. La Corte smentisce la bontà della ricostruzione
della disciplina della responsabilità medica fatta dal Tribunale di Torino
(nella sentenza sopra citata) ed invocata dalla difesa ricorrente e precisa (in
modo del tutto condivisibile) che “deve, viceversa, escludersi che con detto
inciso il legislatore abbia inteso esprimere un’opzione a favore di una
qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità
extracontrattuale (…)“, per poi affermare in conclusione che - sulla base della
suddetta interpretazione del secondo inciso dell’art. 3 comma 1 - “deve,
pertanto, ribadirsi che alla norma nessun rilievo può attribuirsi che induca il
superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità medica come
responsabilità da contatto sociale e sulle sue implicazioni (…)” (vd Cass.
17/4/2014 n. 8940 in motivazione).
Anche secondo la Cassazione del 2014, in sostanza la
previsione normativa in questione conterrebbe un evidente errore e risulterebbe
priva di qualsiasi rilievo. Se infatti la responsabilità civile dell’esercente
la professione sanitaria per i danni arrecati a terzi nello svolgimento della
sua attività costituisce comunque pur sempre una responsabilità da
“contatto”/inadempimento ex art. 1218 c.c. anche in assenza di un contratto fra
il sanitario ed il paziente - secondo l’orientamento consolidato in tema di
responsabilità medica che la Corte si affretta a ribadire – risulterebbe errato
oltre che superfluo il richiamo all’obbligo risarcitorio di cui all’art. 2043
c.c., che non verrebbe in rilievo neppure “in tali casi”. Stando alle suddette
conclusioni cui perviene la Cassazione, si dovrebbe ritenere che il distratto
legislatore del 2012 avrebbe inserito (inutilmente) il richiamo all’art. 2043
all’interno di una norma (art. 3 comma 1 L.189/2012) che disciplina
espressamente anche la responsabilità civile del medico, “soltanto” per la
preoccupazione di escludere (in ossequio al principio “in lege aquilia et
levissima culpa venit”) che la colpa lieve potesse condurre - nei casi in
cui vi è esonero dalla responsabilità penale - a far ritenere esclusa la
responsabilità risarcitoria extracontrattuale, evidentemente dimenticando (o
comunque senza tener conto) che in base al “diritto vivente” la responsabilità
del medico viene comunemente ricondotta alla responsabilità da
“contatto”/inadempimento ex art. 1218 c.c. e non a quella extracontrattuale ex
art. 2043 c.c. Inoltre, risulterebbe irragionevole la stessa preoccupazione del
legislatore - nella quale la Corte ravvisa la ragione unica del secondo inciso
dell’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi – di escludere l’irrilevanza della
colpa lieve in ambito di responsabilità aquiliana/extracontrattuale (“in
lege aquilia et levissima culpa venit”) all’interno di una disciplina sulla
responsabilità civile dell’esercente la professione sanitaria che continuerebbe
ad essere “contrattuale” e sulla quale (secondo la Corte) la legge Balduzzi non
avrebbe nessun impatto (“alla norma nessun rilievo può attribuirsi che induca
il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità medica come
responsabilità da contatto sociale e sulle sue implicazioni” secondo quanto
afferma in motivazione Cass. 8940/2014).
L'interprete non pare autorizzato a ritenere che il
legislatore abbia ignorato il senso del richiamo alla norma cardine della
responsabilità da fatto illecito, nel momento in cui si è premurato di
precisare che, anche qualora l'esercente una professione sanitaria “non
risponde penalmente per colpa lieve” (del delitto di lesioni colpose o di
omicidio colposo) essendosi attenuto alle linee guida e alle buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica, “in tali casi resta comunque fermo
l'obbligo di cui all'art. 2043 del codice civile".
Nell’interpretare la norma vigente non sembra del
tutto trascurabile che inizialmente il comma 1 dell’art. 3 del decreto legge n.
158 del 2012 [«fermo restando il disposto dell’articolo 2236 del codice
civile, nell’accertamento della colpa lieve nell’attività dell’esercente le
professioni sanitarie il giudice, ai sensi dell’art. 1176 del codice civile,
tiene conto in particolare dell’osservanza, nel caso concreto, delle linee
guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica nazionale e
internazionale»] non conteneva nessuna previsione destinata ad incidere
sulla responsabilità penale dell’esercente una professione sanitaria e nessun
richiamo alla responsabilità da fatto illecito, ma si limitava a prevedere che,
ferma la limitazione della responsabilità civile alle ipotesi di dolo o colpa
grave qualora la prestazione avesse implicato la soluzione di problemi tecnici
di speciale difficoltà (ex art. 2236 c.c.), nell’accertamento dell’adempimento
dell’obbligo di diligenza professionale (ex art. 1176 comma 2 c.c.)
il giudice doveva tener conto in particolare dell’osservanza nel caso concreto
da parte del sanitario delle linee guida e delle buone pratiche accreditate.
In sede di conversione del decreto il legislatore (per
meglio perseguire gli obiettivi prefissati) ha radicalmente mutato il comma 1
dell’art. 3, prevedendo che “non risponde penalmente per colpa lieve”
l’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto alle linee guida e
alle buone pratiche accreditate, inserendo il richiamo all’obbligazione
risarcitoria ex art. 2043 c.c. (che grava comunque sul
soggetto esente da responsabilità penale) ed imponendo al giudice di tener
conto “anche nella determinazione del risarcimento del danno”
dell’avvenuto rispetto delle linee guida da parte del sanitario/responsabile.
Le significative modifiche introdotte in sede di conversione del decreto legge
(tali da indurre alcuni a dubitare del rispetto dell’art. 77 Cost.)
contribuiscono a far escludere che l’art. 3 comma 1 della legge vigente sia
frutto di una “svista” e che l’intenzione del legislatore del 2012 possa essere
limitata alla preoccupazione indicata dalla Cassazione nella pronuncia del 2014
più volte richiamata. Qualora l’intenzione del legislatore fosse stata soltanto
quella indicata dalla Corte e la previsione normativa in esame fosse da
interpretare nel senso che non avrebbe inteso scalfire in nessun modo il
consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia di responsabilità medica
come responsabilità ex art. 1218 c.c. da “contatto sociale” (con
tutte le sue implicazioni), non vi sarebbe stata nessuna apprezzabile ragione
per inserire in sede conversione il richiamo all’art. 2043 ed è ragionevole
ritenere che nell’art. 3 comma 1 sarebbe rimasto immutato il richiamo alle
diverse norme (art. 1176 e art. 2236) contenuto nel decreto legge.
Sia il richiamo letterale alla norma cardine che
prevede nell’ordinamento il “risarcimento per fatto illecito” (art. 2043 c.c.)
e “l’obbligo” in essa previsto (in capo a colui che per dolo o colpa ha
commesso il fatto generatore di un danno ingiusto), sia l’inequivoca volontà
della legge Balduzzi – resa manifesta, come detto, oltre che dal comma 1 anche
dal comma 3 del medesimo art. 3, laddove vengono richiamati gli artt. 138 e 139
del D.Lvo 209/2005 per la liquidazione del danno biologico – di restringere e
di limitare la responsabilità (anche) risarcitoria derivante dall’esercizio
delle professioni sanitarie, per contenere la spesa sanitaria e porre rimedio
al cd fenomeno della medicina difensiva, inducono ad interpretare la norma in
esame nel senso che il richiamo alla responsabilità da fatto illecito nell’art.
3 comma 1 impone di rivedere il criterio di imputazione della responsabilità
risarcitoria del medico (dipendente o collaboratore di una struttura sanitaria)
per i danni provocati in assenza di un contratto concluso dal professionista
con il paziente.
E’ senz’altro vero che nell’art. 3 comma 1 della
L.189/2012 non può rinvenirsi un’opzione a favore di una qualificazione della
responsabilità medica “necessariamente come responsabilità extracontrattuale”
(per richiamare le parole della Cassazione), ma compito dell’interprete non è
quello di svuotare di significato la previsione normativa, bensì di attribuire
alla norma il senso che può avere in base al suo tenore letterale e
all’intenzione del legislatore (art. 12 delle preleggi).
Nell’art.3 comma 1 della legge Balduzzi il Parlamento
Italiano, in sede di conversione del decreto e per perseguire le suddette
finalità, ha voluto indubbiamente limitare la responsabilità degli esercenti
una professione sanitaria ed alleggerire la loro posizione processuale anche
attraverso il richiamo all’art. 2043 c.c. - escludendo la responsabilità penale
nei casi di colpa lieve riconducibili al primo periodo, ma facendo salva anche
in tali casi la responsabilità civile (da inadempimento nei casi in cui
preesiste un contratto concluso dal medico con il paziente e da fatto illecito
negli altri casi, come si dirà meglio in seguito) - mentre nel comma 3 del
medesimo articolo ha poi introdotto un criterio limitativo dell’entità del
danno biologico risarcibile in tali casi al danneggiato (mediante il richiamo
agli artt. 138 e 139 cod. ass.).
Sembra dunque corretto interpretare la norma nel senso
che il legislatore ha inteso fornire all’interprete una precisa indicazione nel
senso che, al di fuori dei casi in cui il paziente sia legato al professionista
da un rapporto contrattuale, il criterio attributivo della responsabilità
civile al medico (e agli altri esercenti una professione sanitaria) va
individuato in quello della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c.,
con tutto ciò che ne consegue sia in tema di riparto dell’onere della prova,
sia di termine di prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento del
danno.
Così interpretato, l’art. 3 comma 1 della legge
Balduzzi porta dunque inevitabilmente a dover rivedere l’orientamento
giurisprudenziale pressoché unanime dal 1999 che riconduce in ogni caso la
responsabilità del medico all’art. 1218 c.c., anche in mancanza di un contratto
concluso dal professionista con il paziente.
Peraltro, si è segnalato che il superamento della
teoria del “contatto sociale” (e della relativa disciplina giuridica che ne
consegue in termini di responsabilità risarcitoria) in relazione al medico
inserito in una struttura sanitaria e che non ha concluso nessun contratto con
il paziente, non sembra comportare un’apprezzabile compressione delle
possibilità per il danneggiato di ottenere il risarcimento dei danni derivati
dalla lesione di un diritto fondamentale della persona (qual è quello alla
salute): in considerazione sia del diverso regime giuridico (art. 1218 c.c.)
applicabile alla responsabilità della struttura presso cui il medico opera, sia
della prevedibile maggiore solvibilità della stessa, il danneggiato sarà
infatti ragionevolmente portato a rivolgere in primo luogo la pretesa
risarcitoria nei confronti della struttura sanitaria.
Ricondurre in tali casi la responsabilità del medico
nell’alveo della responsabilità da fatto illecito ex art. 2043
c.c. dovrebbe altresì favorire la cd alleanza terapeutica fra medico e
paziente, senza che (più o meno inconsciamente) venga inquinata da un
sottinteso e strisciante “obbligo di risultato” al quale il medico non è
normativamente tenuto (ma che, di fatto, la responsabilità ex art.
1218 c.c. da “contatto sociale” finisce a volte per attribuirgli, ponendo a suo
carico l’obbligazione di risarcire il danno qualora non sia in grado di provare
di avere ben adempiuto e che il danno derivi da una causa a lui non imputabile)
e che è spesso alla base di scelte terapeutiche “difensive”, pregiudizievoli
per la collettività e talvolta anche per le stesse possibilità di guarigione
del malato.
Né, come detto, la teoria del “contatto sociale”
applicabile al medico (non legato al paziente da alcun rapporto contrattuale)
sembra discendere come doveroso precipitato dalla legge 833/1978, che può al
più costituire la fonte di un obbligo per le strutture sanitarie (pubbliche o
private convenzionate) di erogare le prestazioni terapeutiche e assistenziali
ai soggetti che si trovano nelle condizioni di aver diritto di usufruire del
servizio pubblico. Che tali prestazioni vengano poi necessariamente rese
attraverso il personale dipendente o comunque a vario titolo inserito nella
struttura del S.S.N. non sembra affatto implicare (come inevitabile corollario)
di dover ravvisare in capo a ciascun operatore sanitario una distinta ed
autonoma obbligazione avente fonte legale e, quindi, di dover necessariamente
ritenere responsabile exart. 1218 c.c. l’esercente la professione
sanitaria per i danni che derivano dal suo inadempimento.
La legge 833/1978 non consente di ravvisare
un’obbligazione legale (ex art. 1173 c.c.) in capo al singolo
medico “ospedaliero”, il quale si trova normalmente ad eseguire la sua
prestazione in virtù del solo rapporto giuridico che lo lega alla struttura
sanitaria nella quale è inserito, come sembra aver avuto ben presente il
legislatore del 2012 nel momento in cui, in relazione alla responsabilità
risarcitoria dell’esercente una professione sanitaria, ha ritenuto di far
richiamo all’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.
2.4 Riepilogo del sistema di responsabilità
civile in ambito sanitario dopo la “legge Balduzzi”.
Sulla base del delineato ambito applicativo e della
interpretazione dell’art. 3 comma 1 L. 189/2012 che si ritiene preferibile,
l’articolato sistema della responsabilità civile in ambito sanitario sembra
possa essere così sintetizzato:
· l’art. 3 comma 1 della legge Balduzzi non incide né
sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica o
privata) né su quello del medico che ha concluso con il paziente un contratto
d’opera professionale (anche se nell’ambito della cd attività libero
professionale svolta dal medico dipendente pubblico): in tali casi sia la
responsabilità della struttura sanitaria (contratto atipico di spedalità o di
assistenza sanitaria) sia la responsabilità del medico (contratto d’opera
professionale) derivano da inadempimento e sono disciplinate dall’art. 1218
c.c., ed è indifferente che il creditore/danneggiato agisca per ottenere il
risarcimento del danno nei confronti della sola struttura, del solo medico o di
entrambi;
· il richiamo nella norma suddetta all’obbligo di cui
all’art. 2043 c.c. per l’esercente la professione sanitaria che non risponde
penalmente (per essersi attenuto alle linee guida), ma la cui condotta
evidenzia una colpa lieve, non ha nessun riflesso sulla responsabilità
contrattuale della struttura sanitaria, che ha concluso un contratto atipico
con il paziente (o, se si preferisce, è comunque tenuta ex lege ad adempiere
determinate prestazioni perché inserita nel S.S.N.) ed è chiamata a
rispondere ex art. 1218 c.c. dell’inadempimento riferibile
direttamente alla struttura anche quando derivi dall’operato dei suoi
dipendenti e/o degli ausiliari di cui si è avvalsa (art. 1228 c.c.);
· il tenore letterale dell’art. 3 comma 1 della legge
Balduzzi e l’intenzione del legislatore conducono a ritenere che la
responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni
sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto
d’opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal
legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex art.
2043 c.c. e che, dunque, l’obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire
solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito aquiliano (che
il danneggiato ha l’onere di provare);
· in ogni caso l’alleggerimento della responsabilità
(anche) civile del medico “ospedaliero”, che deriva dall’applicazione del
criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge
Balduzzi (art. 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta
responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del
S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo
“contrattuale” ex art. 1218 c.c. (sia che si ritenga che
l’obbligo di adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi dalla
legge istitutiva del S.S.N. sia che si preferisca far derivare tale obbligo
dalla conclusione del contratto atipico di “spedalità” o “assistenza sanitaria”
con la sola accettazione del paziente presso la struttura);
· se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio
nei confronti del solo medico con il quale è venuto in “contatto” presso una
struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto con il
convenuto, la responsabilità risarcitoria del medico va affermata soltanto in
presenza degli elementi costitutivi dell’illecito ex art. 2043
c.c. che l’attore ha l’onere di provare;
· se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta
dall’attore anche la struttura sanitaria presso la quale l’autore materiale del
fatto illecito ha operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta
(quella ex art. 2043 c.c. per il medico e quella ex art.
1218 c.c. per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell’onere
probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza
trascurare tuttavia che, essendo unico il “fatto dannoso” (seppur distinti i
criteri di imputazione della responsabilità), qualora le domande risultino
fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in solido al
risarcimento del danno a norma dell’art. 2055 c.c. (cfr., fra le altre, Cass.
16/12/2005, n. 27713).
3. La responsabilità risarcitoria dei
convenuti nel caso concreto.
Va premesso che pur avendo il CTU evidenziato profili
di inadempimento dell’obbligo di acquisire dal paziente un consenso pieno ed
informato, prima di procedere all’intervento chirurgico programmato, ciò
risulta ininfluente ai fini della presente decisione.
L’attore non ha mai dedotto tale profilo di
responsabilità dei convenuti - in particolare la lesione del suo diritto al cd
consenso informato - prima del maturare della preclusione assertiva.
V, come detto senza allegare di aver concluso un
contratto con il medico convenuto, deduce che nel corso dell’intervento
chirurgico di tiroidectomia, al quale è stato sottoposto presso la clinica
privata Policlinico di .. dall’equipe guidata dal dott. X, avrebbe subito la
lesione delle corde vocali a causa dell’errata esecuzione dell’intervento e,
sulla base di tale “inadempimento” (inesatto adempimento) che sostiene
imputabile sia al medico che alla struttura sanitaria, chiede la condanna in
solido di entrambi i convenuti a risarcire il danno alla salute e il danno
morale derivati dall’errato intervento chirurgico.
Nessun rilievo assume che l’attore (che ha introdotto
la causa prima della legge Balduzzi) abbia qualificato la sua azione come
un’azione di responsabilità da inadempimento anche rispetto al medico
convenuto, sulla base del “diritto vivente”. Come noto, il giudice può infatti
qualificare diversamente la domanda risarcitoria proposta dal danneggiato,
purché restino inalterati i fatti dedotti dall’attore a sostegno della pretesa
e che il giudice pone a fondamento della decisione (cfr. fra le altre,
Cass.8/2/2007 n. 2746 e Cass.17/4/2013 n. 9240).
Ora, sulla base dei documenti prodotti dalle parti,
delle risultanze della C.T.U. (relazione depositata il 28/12/2012) e di quanto
allegato dall’attore e non contestato specificamente dai convenuti, risulta
provato che: il 20/10/2008 V fu ricoverato presso la struttura sanitaria
convenuta e il giorno stesso sottoposto ad intervento di tiroidectomia totale
(“reso necessario per la presenza di un voluminoso struma adenoso
cistico-emorragico”), eseguito da un’equipe chirurgica guidata dal convenuto X;
che nel corso dell’intervento chirurgico l’attore subì “un insulto bilaterale
dei nervi laringei ricorrenti che provocò la cospicua adduzione delle corde
vocali con disfonia e riduzione dello spazio respiratorio tanto che dovette
essere trasferito in unità di cura intensiva e successivamente trattato in
reparto ORL mediante tracheotomia”; che durante l’intervento del 20/10/2008
“venne prodotto un danno chirurgico irreversibile a carico del nervo laringeo
ricorrente destro (che nella descrizione dell’intervento non venne neppure
identificato nel suo decorso) ed un danno transitorio a carico di quello
sinistro (per quanto in descrizione di intervento apparentemente “visualizzato
e conservato”) che dopo un certo lasso di tempo (…) riprese la sua funzione”;
che “tali danni hanno prodotto come esito una riduzione dello spazio
respiratorio laringeo con conseguente dispnea da sforzo ed una disfonia di
grado lieve per compenso della cv sinistra e delle false corde” (vd p.7 e 8
della relazione del CTU in atti).
Il materiale probatorio acquisito consente di
affermare che nel caso concreto è ravvisabile la responsabilità risarcitoria
sia del medico sia della struttura sanitaria.
In particolare, nella condotta del medico dott. X si
ravvisano tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito ex art. 2043 c.c.,
necessari come detto per l’affermazione della responsabilità civile del
medico-chirurgo non legato nel caso concreto al paziente da un rapporto
contrattuale.
Nella relazione depositata il CTU riferisce: che “l’intervento
eseguito dal dott. X presso la struttura sanitaria convenuta è consistito in
una tiroidectomia totale che in mani esperte non comporta solitamente problemi
tecnici di speciale difficoltà” (p. 14 della relazione); che le linee guida
raccomandavano per l’intervento in questione, fra l’altro, l’uso di “tecniche
chirurgiche con dissezione accurata allo scopo di identificare precocemente il
nervo”, una “attenta conduzione dell’atto chirurgico nel modo più esangue
possibile ed evitando ripetute manipolazioni”, il “monitoraggio intraoperatorio
dell’attività del nervo”, il “controllo pre e post-operatorio della motilità
cordale con conseguente valutazione otorinolaringoiatrica” (p. 8); che “nel
caso de quo, nella descrizione dell’intervento non ci sono evidenze di
isolamento dei nervi laringei ma si cita solo la preventiva legatura e sezione
dei peduncoli vascolari e la sola visualizzazione del nervo laringeo ricorrente
di sinistra e la sua conservazione peraltro non scevra da insulto (sofferenza
temporanea) vista l’emergenza respiratoria post-intervento” (p. 9); che “nel
caso specifico pur in presenza di campo operatorio limitrofo ad esiti di
precedenti interventi non furono attuate metodiche al tempo disponibili per
identificare e proteggere le strutture nervose causando un danno alle stesse
che comportarono subito dopo l’intervento la gestione di una urgenza
respiratoria da parte della unità di crisi intensiva e successivamente un danno
irreversibile al nervo laringeo destro con conseguenze sulla funzione fonatoria
e respiratoria della laringe” (p. 14).
Pienamente condivisibile in siffatta situazione
risulta la logica conclusione cui perviene l’ausiliare - all’esito dell’attento
e completo esame della documentazione disponibile e degli approfonditi accertamenti
compiuti – secondo il quale, nel “mancato isolamento del nervo laringeo destro
durante la procedura chirurgica con conseguente impossibilità di procedere al
monitoraggio intraoperatorio dell’attività dello stesso nervo di destra e di
quello contro laterale che, visualizzato, riportò una sofferenza solo
temporanea”, sono ravvisabili elementi di responsabilità professionale del
chirurgo.
Le conclusioni del CTU non sono smentite dalle
osservazioni critiche dei consulenti di parte, in ampia misura apodittiche, non
suffragate da concreti elementi di prova né sorrette da convincenti
argomentazioni scientifiche.
Risulta evidente nel caso concreto il colpevole
mancato rispetto delle linee guida da parte dei sanitari, in particolare del
chirurgo convenuto che guidava l’equipe medica.
Il riscontrato danno alle strutture nervose subito da
V è etiologicamente riconducibile alla condotta colposa del convenuto - che si
caratterizza sia per imperizia sia per negligenza – e non costituisce affatto
una complicanza prevedibile ma non evitabile nel caso concreto come dedotto
dalla difesa convenuta. Risulta infatti altamente probabile che il danno alla
salute riscontrato dall’ausiliare sia stato causato da errate manovre poste in
atto nel corso dell’intervento di tiroidectomia, eseguito in spregio alle linee
guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica dell’epoca,
e non vi sono elementi per poter ritenere che, con apprezzabile grado di
probabilità, il danno iatrogeno subito dall’attore si sarebbe verificato anche
qualora gli operatori si fossero attenuti (come avrebbero dovuto) alle linee
guida indicate dal CTU.
Oltre al medico convenuto, parimenti responsabile del
danno subito dall’attore è la struttura sanitaria, la quale come ricordato
sopra era direttamente obbligata ad adempiere tutte le prestazioni dovute in
base al “contratto di spedalità” concluso con il paziente.
Si è detto che la responsabilità della struttura per i
danni che si verificano in ambito sanitario è una responsabilità che scaturisce
dall’inadempimento e/o dall’inesatto adempimento di una delle varie prestazioni
(non necessariamente di quella principale come nel caso di specie) che è
direttamente obbligata ad eseguire in base al contratto atipico concluso con il
paziente - o in base alla legge se si preferisce aderire alla tesi della fonte
legale dell’obbligazione – e non una responsabilità per fatto altrui. Ai fini
della diretta riferibilità ex artt. 1218-1228 c.c. delle conseguenze
risarcitorie dell’illecito non assume particolare rilevo che il
contraente/debitore (solitamente un ente collettivo, pubblico o privato)
nell’adempimento delle sue obbligazioni si avvale – deve avvalersi per
l’esecuzione delle prestazioni strettamente sanitarie di particolari figure
professionali abilitate (le sole che possono eseguire tali prestazioni) –
necessariamente di propri dipendenti o di collaboratori esterni. Ne deriva che
la struttura sanitaria per essere esonerata dalla responsabilità risarcitoria
verso il paziente non può utilmente invocare la condotta illecita del proprio
dipendente o collaboratore – individuato come responsabile (corresponsabile)
dalla stessa struttura o direttamente dal danneggiato – ma è tenuta a fornire
nel processo la prova positiva che le conseguenze dannose di tale condotta non
le sono imputabili a titolo di inadempimento delle obbligazioni oggetto del
contratto di spedalità.
Nel caso di specie non solo la struttura sanitaria non
ha neppure tentato di provare di aver compiutamente adempiuto le sue
obbligazioni, ma vi è la prova in atti dell’inesatto adempimento della
prestazione principale ed è quindi tenuta ex artt. 1218-1228 c.c. a risarcire
integralmente i danni derivati dall’operato dei propri dipendenti e
collaboratori (fra i quali il dott. X) di cui si è avvalsa.
4. I danni subiti dall’attore.
4.1 Il danno non patrimoniale.
Dall’illecito descritto, avvenuto il 20/10/2008,
l’attore V (nato il …1956) ha riportato “un danno chirurgico irreversibile a
carico del nervo laringeo ricorrente destro (…) ed un danno transitorio a
carico di quello sinistro (…) che hanno prodotto come esito una riduzione dello
spazio respiratorio laringeo con conseguente dispnea da sforzo ed una disfonia
di grado lieve per compenso della cv sinistra e delle false corde” .
Secondo il condiviso responso del C.T.U., ciò ha
comportato per il danneggiato una maggior durata della malattia – rispetto a
quella che un paziente con analoga patologia e nelle medesime condizioni
soggettive avrebbe comunque sopportato – con temporanea totale inabilità alle
ordinarie occupazioni per 30 giorni e parziale per ulteriori 60 giorni (20
giorni al 75%, 20 giorni al 50% e 20 giorni al 25%); inoltre, i postumi
residuati concretizzano un danno all’integrità psico-fisica dell’attore di
natura esclusivamente iatrogena pari all’11 % (vd p. 10 della relazione in
atti).
Pur ritenendosi che il criterio legale previsto
dall’art. 3 co. 3 della legge Balduzzi - ove come detto si fa espresso richiamo
alle tabelle degli artt. 138 e 139 del cod. ass. per la liquidazione del danno
biologico conseguente alla responsabilità professionale dell’esercente una
professione sanitaria - trova applicazione anche in relazione ai fatti dannosi
verificatisi prima dell’entrata in vigore di tale legge (come già affermato in
altre pronunce di questo tribunale alle quali si rinvia), la mancata adozione
della tabella prevista dall’art. 138 per le cd macropermanenti (menomazioni
dell’integrità psico-fisica comprese tra 10 e 100 punti) rende impossibile
procedere nel caso concreto alla liquidazione del danno secondo il criterio
legale (allo stato applicabile solo alle cd micropermanenti previste nella
tabella adottata ex art. 139).
Occorre pertanto fare ancora applicazione nel caso di
specie delle note tabelle elaborate da questo tribunale, comunemente adottate
per la liquidazione equitativa ex artt. 1226-2056 c.c. del danno non
patrimoniale derivante dalla lesione dell’integrità psico/fisica e che, come
detto, rappresentano un criterio di liquidazione condiviso dalla Suprema Corte,
la quale l’ha ritenuto applicabile sull’intero territorio nazionale in assenza
di un diverso criterio legale per la liquidazione del danno alla persona (vd
Cass. 7/6/2011 n. 12408).
A fronte delle riferite conclusioni del CTU, sulla
base delle richiamate tabelle giurisprudenziali di liquidazione equitativa del
danno alla persona il pregiudizio da temporanea può quantificarsi in moneta
attuale in complessivi euro 5.900,00, mentre quello permanente - tenuto conto
dell’età (52 anni) del danneggiato all’epoca dei fatti e dell’entità del gradiente
invalidante riscontrato dal CTU (11%) – può essere monetizzato all’attualità in
complessivi euro 23.715,00.
Il danno alla salute sopra indicato non esaurisce
tuttavia nel caso concreto l’intero danno non patrimoniale risarcibile al
danneggiato.
Si ritiene infatti che taluni apprezzabili aspetti (o
voci) che vengono in rilievo e che da tempo sono solitamente ricondotti dalla
giurisprudenza prevalente nella unitaria categoria generale del danno non
patrimoniale (art. 2059 c.c.), non risulterebbero adeguatamente risarciti con
la sola applicazione dei predetti valori monetari della tabella.
Per l’integrale risarcimento del danno non
patrimoniale sofferto dall’attore è infatti necessario procedere ad una
adeguata “personalizzazione”, avendo riguardo a quei profili riconducibili alla
sofferenza soggettiva, ai pregiudizi alla vita di relazione e ai riflessi
negativi sulle abitudini di vita che possono ritenersi sussistenti in relazione
alle conseguenze dell’errato intervento chirurgico. Il danneggiato è stato
sottoposto a un periodo di terapia intensiva (necessitata dall’insorta
insufficienza respiratoria), poi ha dovuto subire una tracheotomia (temporanea)
e in seguito - a causa della disfonia e della ridotta capacità respiratoria che
sono residuate dall’errata prestazione sanitaria - si è visto costretto ad una
quotidiana difficoltà nella vita di relazione e a dover rinunciare a svolgere
pienamente anche talune comuni attività che caratterizzano la vita di un
soggetto della sua età (come evidenziato dalla difesa attrice e non
specificamente contestato dai convenuti).
Alla luce di tali considerazioni e per addivenire ad
un integrale risarcimento che tenga conto dei vari aspetti che concorrono nella
individuazione del composito danno di cui si discute - senza discostarsi
dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che richiama ad una
liquidazione unitaria del danno alla persona onde evitare inammissibili
duplicazioni di poste risarcitorie (fra le altre, Cass. Sez. Un. 11/11/2008 n.
26972; Cass.20/11/2012 n. 20292 e Cass.23/1/2014 n. 1361) - si ritiene di
“personalizzare” il danno subito dall’attore aumentando la somma suddetta
risultante dall’applicazione delle tabelle (euro 29.615,00) fino ad euro
38.000,00, che costituisce quindi il complessivo danno non patrimoniale
risarcibile liquidato al valore attuale dalla moneta.
4.2 Il danno patrimoniale.
L’attore non deduce di aver subito danni patrimoniali
diversi ed ulteriori rispetto a quello che invoca per il mancato tempestivo
risarcimento del danno non patrimoniale.
Il danneggiato chiede che tale voce di danno
(patrimoniale) gli venga risarcita attraverso la rivalutazione monetaria di
quanto liquidato a titolo di danno non patrimoniale e attraverso il
riconoscimento degli interessi legali su tale importo (rivalutato) con
decorrenza dall’illecito.
4.3 Il lucro cessante per il ritardato
risarcimento del danno.
L’intero danno non patrimoniale è stato liquidato
equitativamente - sulla base della richiamata tabella di liquidazione del danno
alla persona - ai valori attuali della moneta e non deve quindi farsi luogo
alla sua rivalutazione.
Inoltre, alla luce dell’insegnamento delle Sezioni
Unite della Cassazione (risalente alla sentenza del 17/2/1995 n. 1712),
vertendosi in tema di debito di valore non sono dovuti al danneggiato sul
credito risarcitorio suddetto gli interessi legali con decorrenza
dall’illecito.
Si ritiene tuttavia, in considerazione del lungo lasso
di tempo trascorso dall’illecito (6 anni) e delle caratteristiche del
danneggiato, che vada riconosciuta all’attore un’ulteriore somma a titolo di
lucro cessante provocato dal mancato tempestivo risarcimento del danno da parte
dei responsabili - e conseguentemente dalla mancata disponibilità
dell’equivalente pecuniario spettante al danneggiato - potendo ragionevolmente
presumersi che il creditore, ove avesse avuto la tempestiva disponibilità della
somma, l’avrebbe impiegata in modo fruttifero.
Ai fini della liquidazione necessariamente equitativa
di tale ulteriore voce di danno patrimoniale, non si ritiene di far ricorso al
criterio – sovente applicato dalla giurisprudenza - degli interessi legali al
saggio variabile in ragione di anno (determinato ex art. 1284 c.c.) da
calcolarsi sull’importo già riconosciuto, dapprima “devalutato” fino all’illecito
e poi “rivalutato” annualmente con l’aggiunta degli interessi, ovvero sul
capitale “medio” rivalutato.
Si ritiene preferibile, perché più rispondente alla
finalità perseguita e scevro da possibili equivoci che possono derivare
dall’applicazione ai debiti di valore di istituti previsti dall’ordinamento per
i debiti di valuta, adottare per la liquidazione equitativa del lucro cessante
in questione un aumento percentuale nella misura risultante dalla
moltiplicazione di un valore base medio del 3% - corrispondente all’incirca al
rendimento medio dei Titoli di Stato negli anni compresi nel periodo che viene
in rilievo – con il numero di anni in cui si è protratto il ritardo nel
risarcimento per equivalente. Tale criterio equitativo sembra meglio evitare,
da un lato, di far ricadere sul creditore/danneggiato le conseguenze negative
del tempo occorrente per addivenire ad una liquidazione giudiziale del danno e,
dall’altro, più idoneo a prevenire il rischio che il debitore/danneggiante (la
cui obbligazione di risarcire per equivalente il danno diventa attuale dal
momento in cui esso si verifica), anziché procedere ad una tempestiva
riparazione della sfera giuridica altrui lesa, sia tentato di avvantaggiarsi
ingiustamente della non liquidità del debito risarcitorio e della potenziale
redditività della somma di denaro dovuta (che resta nella sua disponibilità
fino alla liquidazione giudiziale del danno).
Nel caso di specie, considerato il tempo trascorso da
quando il danno subito dall’attore si è pienamente verificato (2008) l’importo
in questione viene dunque equitativamente liquidato attraverso una
maggiorazione del 18% dell’intero danno suddetto (già rivalutato) e risulta
pari ad euro 6.840,00.
4.4 Il complessivo danno risarcibile e la
condanna solidale dei responsabili.
Dalla somma delle voci di danno sopra liquidate si
ottiene quindi un credito complessivo del danneggiato pari ad euro 44.840,00
(euro 38.000 + euro 6.840).
Su tale somma, corrispondente all’intero danno
risarcibile liquidato al creditore/danneggiato, sono altresì dovuti dai
responsabili gli interessi al tasso legale sino al saldo, con decorrenza dalla
data della presente pronuncia coincidente con la trasformazione del debito di
valore in debito di valuta.
I convenuti vanno pertanto condannati in solido ex
art. 2055 c.c. a pagare all’attore a titolo di risarcimento del danno la somma
complessiva di euro 44.840,00 oltre interessi legali dalla presente sentenza al
saldo.
5. La domanda di manleva della struttura
sanitaria contro il medico.
Come detto, sin dalla comparsa costitutiva
tempestivamente depositata il Policlinico di .. s.p.a. ha chiesto in via
subordinata (per il caso in cui la domanda dell’attore fosse risultata fondata)
la condanna del medico convenuto (dott. X) a manlevare e tenere indenne la struttura
sanitaria dalle conseguenze della soccombenza.
A fondamento di tale domanda la società convenuta
invoca il “contratto di collaborazione libero professionale” sottoscritto dalle
parti (doc. 2).
Non si tratta pertanto di un’azione di regresso ex
art. 2055 c.c., dal momento che il diritto azionato dalla struttura sanitaria
non deriva dalla legge ma ha fonte (negoziale) nel contratto concluso dalle
parti.
Nella clausola 10 del contratto in questione, “il
medico dichiara sin d’ora di manlevare e tenere indenne il Policlinico di
.. da ogni conseguenza pregiudizievole che si riferisca ad ogni domanda
promossa nei suoi confronti e nei confronti del Policlinico (…) dai pazienti
suoi personali o da pazienti di Policlinico di .. che siano stati da lui
assistiti (…) in conseguenza dell’attività da lui svolta presso la Casa di Cura”
(punto 1 della clausola), con l’ulteriore specificazione che la suddetta “(…)manleva
è formulata sia con riferimento ai casi di eventuale responsabilità per colpa
grave o dolo (…) sia ai casi di responsabilità per scarsa diligenza (…) e
comunque in ogni caso in cui venga accertata giudizialmente la responsabilità
professionale del medico” (clausola 10.2).
Non vi è dubbio che nel suddetto “patto di manleva”
(che prevedeva anche l’obbligo del dott. X di avere una copertura assicurativa,
fino ad un determinato massimale, a garanzia dei rischi derivanti dalla sua
attività professionale e ad esibire alla struttura sanitaria la polizza, alla
quale era condizionata la validità e l’efficacia del contratto di
collaborazione fra le parti) il medico convenuto si è obbligato a tenere
indenne la struttura sanitaria dalle pretese risarcitorie relative ai danni
subiti dai pazienti in conseguenza dell’attività medico-chirurgica svolta dal
professionista all’interno della casa di cura privata (sia in relazione ai
pazienti personali del medico sia ai pazienti della casa di cura come l’odierno
attore).
Nel processo il medico convenuto non contesta
l’esistenza di un interesse meritevole di tutela alla conclusione di siffatto
accordo e non solleva eccezioni in merito alla validità e all’efficacia della
clausola contrattuale che contiene l’atipico patto di manleva (vd al riguardo
Cass. 30/5/2013 n.13613; Cass. 2/3/1998 n. 2365 e Cass. 8/3/1980 n. 1543) – che
in sostanza finisce per scaricare sul professionista il rischio di impresa
della clinica per i danni conseguenza delle prestazioni sanitarie eseguite dal
dott. X all’interno della struttura - e non si ravvisano profili di invalidità
rilevabili d’ufficio che possano indurre a ritenere inefficace il suddetto
accordo frutto dell’autonomia negoziale delle parti.
In accoglimento della domanda di manleva, il medico
convenuto va pertanto condannato a restituire alla Policlinico di … s.p.a.
l’importo complessivo che tale parte in base alla presente sentenza fosse
costretta a pagare all’attore in relazione alla pretesa risarcitoria oggetto di
causa.
6. La domanda di garanzia del medico contro
l’assicuratore.
Infine, va altresì accolta la domanda di garanzia
avanzata dal medico nei confronti del proprio assicuratore (convenuto) nella
citazione introduttiva della causa riunita (R.G. ../2011).
E’ incontroversa la validità e l’efficacia della
polizza (n….) per la responsabilità professionale sottoscritta da X con la …
Assicurazioni s.p.a.: tant’è che sin dalla comparsa costitutiva la compagnia
assicuratrice ha concluso dichiarandosi pronta a “tenere indenne” il medico
proprio assicurato da quanto fosse eventualmente tenuto a pagare all’esito del
giudizio promosso nei suoi confronti da V.
Va pertanto condannata la .. Assicurazioni s.p.a. a
tenere indenne il proprio assicurato X dalla soccombenza e, quindi, a
rimborsare al medico convenuto quanto da tale parte dovuto alle controparti
sulla base della presente sentenza anche a titolo di spese di lite (cfr. Cass.
20/11/2012 n. 20322 e Cass. 31/5/2012 n. 8686).
7. Le spese di lite.
In applicazione del principio della soccombenza (art.
91 c.p.c.) ed in relazione alla causa R.G…/2010, i convenuti X e Policlinico di
.. s.p.a. vanno condannati, in solido, a rifondere all’attore le spese di lite,
liquidate come in dispositivo in base allo scaglione in cui è compreso il
credito risarcitorio riconosciuto al danneggiato e comprensive degli oneri di
CTU anticipati dalla parte vittoriosa.
Il convenuto X, soccombente sulla domanda di manleva,
va invece condannato a rifondere le spese di lite in favore di Policlinico di …
s.p.a., liquidate come in dispositivo sulla base del medesimo criterio
suddetto.
Infine, sempre in base alla soccombenza l’assicuratore
convenuto nella causa riunita (R.G…./2011) è tenuto a rifondere le spese di
lite in favore di X anch’esse liquidate con lo stesso criterio come in
dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Milano, definitivamente
pronunciando … così provvede:
1. in accoglimento della
domanda di risarcimento danni avanzata dall’attore, condanna X e Policlinico di
… s.p.a., in solido, a pagare a Vla somma complessiva di euro 44.840,00 oltre
interessi al tasso legale dalla presente sentenza al saldo;
2. in accoglimento della
domanda di manleva avanzata dalla struttura sanitaria convenuta, condanna X a
restituire a Policlinico di … s.p.a. la somma complessiva che tale parte fosse
costretta a pagare all’attore V sulla base del capo 1 della presente sentenza,
oltre interessi legali dalla data del pagamento al saldo;
3. in accoglimento della
domanda di garanzia avanzata da X, condanna … Assicurazioni s.p.a. a tenere
indenne il predetto assicurato da ogni conseguenza patrimoniale derivante nei
suoi confronti dalla presente sentenza;
4. condanna X e
Policlinico di .. s.p.a., in solido, a rifondere all’attore V le spese di lite
liquidate in complessivi euro 9.080,00, di cui euro 2.380,00 per esborsi
(compresi oneri di CTU) ed euro 6.700,00 per compensi, oltre oneri accessori
come per legge;
5. condanna X a rifondere
a Policlinico di … s.p.a. le spese di lite liquidate in complessivi euro
6.779,75, di cui euro 79,75 per esborsi ed euro 6.700,00 per compensi, oltre
oneri accessori come per legge;
6. condanna …
Assicurazioni s.p.a. a rifondere a X le spese di lite liquidate in complessivi
euro 7.258,00, di cui euro 558,00 per esborsi ed euro 6.700,00 per compensi,
oltre oneri accessori come per legge.
Così deciso in Milano il 17/7/2014.
Il Giudice
Patrizio Gattari
Patrizio Gattari